venerdì, dicembre 22, 2006

Insufflato

Trent’anni in un istituto di correzione sarebbero un regalo per molti. Spesso la colpa è solo della personalità parallela, ma il giudice, non essendo Salomone, commina la pena al titolare senza fare il dovuto distinguo tra l’uno e l’altro. Poi c’è chi paga il fio e la pena di qualche morbo degenerativo irreversibile. E vorrebbe una dissolvenza al nero nel tempo di battere le palpebre: un battito di ciglia per le parole, un battito di ciglia per spiegare le ali, veloce, come un tiro di balestra. Buio che schizza finalmente dal basso, fulmineo quando l’acqua non cola più da tempo in gola. Lo chiamavano garrote, ora ventilazione polmonare. C’è chi paragona il respiro al flusso di coscienza: allora c’è vita finchè resta un monologo interiore o in embrione

domenica, dicembre 17, 2006

Lo specchio di Natale

Io a Natale mi manco molto. Mi perdo da qualche parte, tra le pieghe del divano e le fughe delle piastrelle da sgrassare col Vaporello dopo le fritture. Comincio a misurare quello che ho e quello che mi manca ed è penoso come l’ago che non trova la vena. Allora mi viene sonno e freddo, un ottundimento algido e rigonfio tipo anestesia dal dentista, e mi perdo. E per sentirmi mi mordo la lingua, che il sapore ferroso del sangue in bocca mi ricorda quanti globuli stanno lavorando per me. Il sangue è memento vitae: se non ho le mestruazioni desidero comunque vederlo scorrere da qualche parte. E poiché non sono una di quelle autolesioniste che si tagliuzzano le braccia, mi dò all’igiene accurata del cavo orale. A Natale soprattutto uso molto il filo interdentale, sia per rimuovere i pistilli dei fichi secchi, sia per veder scorrere il sangue dalle gengive andate da tempo a puttane. Valore ematico.
Penso che il dolore ottuso sia cominciato nel 1984: l’unico inverno che ricordi in cui la neve si è posata a terra dalle mie parti. Io non l’avevo mai vista: porosa e bianca, un bel po’ di centimetri sul prato sotto casa. Ci ho giocato dalle otto a mezzogiorno. Il naso e le falangi livide di assideramento, perché la volevo proprio toccare, senza guanti, e spalmarmela il faccia. Ma poi si è squagliata sotto il sole dell’ora di pranzo, che riscalda anche a dicembre dalle mie parti. Le finestre spifferavano ragù gorgogliante. Andai a fare la scarpetta nel sugo fresco e ripulendo il piatto con pane e moccolo provai il dolore ottuso, impastato di freddo e di sonno. Sarà che era il primo Natale senza nonno barbiere e che pure il presepe stava a lutto: mio padre si era scocciato di fare i vasi comunicanti e l’impianto idraulico, così sulla cartapesta non scorreva acqua vera col colorante blu, ma solo una striscia di carta stagnola, pure raggrinzita. E pure il laghetto con le paperelle era in domopack.
E’ così che ho cominciato a mordermi la lingua per dire a mamma che piangevo perché appunto mi ero morsa la lingua. Perché io sono una patetica discreta: mi piango addosso, ma raramente piango di fronte agli altri se non giustificata da una ferita, un’ecchimosi, un male visibile.
E ho cominciato ad abbracciarmi in un angolo dell’ingresso, dando le spalle allo specchio-omino.
Lo faccio ancora adesso. Ho mamma, papà, fratello minore e nonna, ma non siamo molto affettuosi tra di noi, salvo in caso di cancro. C’è anche un fidanzato, o una relazione che dir si voglia. Questo è il quarto anno che posso abbracciarlo a Natale. Certo, manca ancora una settimana, ma diamo per certo che accadrà. Lo abbraccerò senz’altro. Ma lui non mi manca quanto mi manco io in questi giorni. E poi c’è un’altra cosa. Io mi aggrappo fisicamente a lui, mi faccio scudo col suo corpo, lo bacio per respirarlo, perché vorrei essere nei suoi villi polmonari, però non sono molto usa alle smancerie. Non mi piacciono i preliminari, mi accoppio come i gatti, preferisco un morso in testa.
Il dolore ottuso poi mi irrigidisce. E inoltre diffido. Penso che se ci si abbraccia dal 20 dicembre al 7 gennaio si finga, si voglia ostentare felicità per il pubblico sotto le luminarie. Però mi manco e ho bisogno di due braccia che mi strappino ad dolore ottuso. Allora nell’ingresso a casa-casa, casa-dei miei c’è questo specchio di 180 centimetri a sagoma umana. Io mi metto nell’angolo di fronte allo specchio umano con le braccia conserte sul dorso, che tanto sono molto elastica e non ho grosse tette e allora le dita si congiungono sulle scapole. Dall’immagine riflessa sembra che mi abbracci qualcun'altro, tanto è innaturale la torsione delle braccia. E mentre mi rifletto mi manco un po’ di meno. Poi il formicolio mi intorpidisce, mi slaccio, esco dallo specchio e sono persa di nuovo.

venerdì, dicembre 15, 2006


Ispirata dagli Strange Attractors

Le scienze ergono pattern per contrastare le turbolenze eppure il caos resta un regno inespugnato. Pare che Heisenberg se ne facesse ancora cruccio sul letto di morte. Deve essere un inciampo cognitivo imbarazzante per un fisico. Wittgenstein invece si sentiva comodo nel caos.
E’ un filosofo da prendere molto sul serio.
Il mood di chi trova confortevole la turbolenza è il meme necessario a chi vive sul codice binario del XXI secolo: è il replicatore evoluzionistico da metabolizzare per correggere un certo astigmatismo fideista e aderire al puro sperimentalismo delle nostre costruzioni antropocentriche così pigre e quindi così poco ragionevoli ET razionali ET prevedibili.
Il determinismo ha una velleità previsionale che si addice solo alle traiettorie balistiche.
Devo darmi un modello discreto della realtà, fare calcoli ricorsivi e non temere le interruzioni di senso: la continuità è una percezione da pasionaria che non si addice ad un’epoca in frantumi.
Ho capito che chi mi ha fatto a pezzi voleva solo rendermi un favore.
Mi devo riscrivere in un format staminale, neonato e totipotente: una coltura autologa di infinite forme. Oscillare, ma non con la temporalità nota di un metronomo. Ripetersi, ma mai allo stesso modo. La coda di paglia non è che la coda di una gaussiana molto spessa: prende velocemente fuoco a causa della volatilità delle opzioni. Io ho una coda di paglia a combustione lenta e insostenibile. Nella combustione lenta il calore si trasferisce dalla zona combusta a quella ancora da bruciare: c’è la veemenza del fuoco e la spossatezza del freddo. Preferirei la detonazione violentissima di una supernova.
La mia debolezza si spiega con la teoria del caos: dalla fede al bricolage, dal dogma alla piccola manutenzione con il seghetto da traforo. Mi hai detto “Facciamo un gioco” e io mi sono fidata: pensavo ad un piccolo mondo ordinato e normato.
La fiducia – ha detto qualcuno – è un “riduttore di complessità".
E io vorrei fidarmi, come mi fido di un terminale o del caos dei treni, che stanno su due rotaie, ma su un solo binario eppur si muovono…
E io vorrei fidarmi, con la mia vetusta rigidità da motore a scoppio che non si aggiorna ai frattali.
Invece i giochi sono sempre a somma zero e quindi caos e il tuo invito ludico non era che guerra di nervi, conflitto e collisione.
Mi hai messo in gabbia con il solito dilemma del prigioniero.
Il costo è il tempo perso nella rabbia dell’attesa.

mercoledì, dicembre 13, 2006

Binario Morto

Il Binario Morto è la lunga percorrenza della Freccia del Sud che al topico australe dove Cristo s’è fermato e anche oltre riporta la sua Feccia carica di sporte, spesso in files, trolley 4x4 e polistirolo per alimenti: il basto è post bellico e venti di guerre fredde spirano tuttora.
Vorrei un parere di Cavour sulle strade ferrate del XXI secolo millantate da Trenitalia come smart e ticketless. Io mi accontento anche di meno: vorrei solo che non fosse anacronistico.
Se dalle spalliere stinte di finta pelle mi sorride una damina nella stampa ingiallita, vorrei almeno poterla incontrare nel 1943 su una bonaria littorina sbuffante gasolio mal combusto.
”Se una notte d'inverno”…una viaggiatrice, anzi no una passeggera, chè tanto in vacanza si va solo a casa: geografie altre restano ignote, ma qualcosa del Belpaese si intuisce nel panorama ritagliato dal finestrino bloccato. Per fame d’aria e iperventilazione guardi la stazione di Arezzo di notte e ripensi alle regioni studiate a scuola, che disegnavi sul quadernone ricalcandole con la carta velina, tracciando i fiumi in azzurro e le pianure in verde. Floride economie basate sull’agricoltura e sulla pesca e, man mano che sali, sul settore terziario.
Il ritorno è viaggio, evasione, e per tornare si deve evadere dal corpo: Nirvana da cuccetta, formicolio nel midollo fino al mare iniettato nell’umor vitreo dal solito finestrino bloccato.
E’ l’analgesico degli arti rotti e il residuo fisso del pensiero meridiano: il mare.

sabato, dicembre 09, 2006

Che scrivo a fare?

Forse perchè qualcuno apprezzi, nell'afasia crescente, la ricerca una lingua che mi cambi, di una parola autenticamente affermativa?
La maggior parte del mio testo è un'interminabile lettera lungo la fuga. Quanto faccio leggere, invece, è la parte cristallizzata e definita del mio percorso, in una certa misura un filone esausto, ma di cui auspico qualcun'altro possa farsi autore, cioè traditore. Ciò che ne conservo è un'ombra, che mi precede. Non mi indica la via, piuttosto tener fissi gli occhi a quest'ombra, contro una luce così forte, mi rende possibile, ancora, vedere.

mercoledì, dicembre 06, 2006

Aniversari ematici


1987. L’uccellino del segnale orario cinguettava tra il tronchetto della felicità e lo sciacquone da una Telefunken a valvole anni '50: impiallacciato noce, frontale in bakelite con inserti oro ducato e cinque manopoline color panna. “Ascolta si fa sera, vi parla padre Mariano. Gesù disse una volta: Vi ho parlato affinché la mia gioia abiti in voi, e la vostra gioia sia completa.”
Il Vangelo si stendeva ampio e lento nel vapore.
“Ascolta si fa sera, vi parla padre Virgilio Rotondi” – l'eco di mia nonna - “Che bel programma, che belle parole, tu non ti puoi ricordare”.

Con l’orecchio sulla parete mi concentravo sulla sigla flautata-liutata dell’Almanacco del giorno dopo. "Domani e' il 15 dicembre. A Roma il sole sorge alle 7.33 e tramonta alle 16.41”. Il santo del giorno, Domani Accadde - o Domani avvenne?- Dalla parte degli animali…
Ad occhi chiusi visualizzavo il prisma a sezione dodecaedrica con le figure allegoriche dei mesi in rotazione. Il disegno figurato del Tempo, un omino con la bandiera, faceva "finire la commedia".
Per cena c'erano semolino in bianco e broccoli e salsiccia “scuppettiati”. E mi aspettavano a tavola. Ma io volevo salvare le tre civette sui mutandoni di flanella rosa. Il sangue rugginoso le aveva impastate e io non sapevo che l’acqua bollente fungesse da fissante ematico. E credevo che “diventare signorina” avesse a che fare con le calze velate, il mezzo tacco e le gonne da grande con lo spacco.

martedì, dicembre 05, 2006

POLONIO E TEMPURA

Rilancia il programma inserendo valori caucasici. Altro che mancati kamikaze semiti finiti supini in tuta arancione a Guantanamo. Perché raschiarsi via i polpastrelli e frantumare il volto altrui? “Signore rendimi strumento della tua pace. Dove si coltiva odio fammi seminare amore”.
Ho detto: NO! Qui l’odio non si può bonificare: non esiste antidoto da sintetizzare. L’isotopo è una graticola che sfascia il midollo: forse spalmata di soia e ingerita con tempura. Avvelenamento zen-minimal-etno-chic! Conosco da vicino gli effetti collaterali di un isotopo radioattivo: iodio 131 somministrato a mio padre ogni anno per l’ablazione di residui tiroidei sospetti di neoplasia.
Per quanto alte, le dosi rientrano nel protocollo di follow up tumorale. Tuttavia l’irraggiamento nucleare del paziente richiede isolamento in camera piombata, parametri di distanza precauzionali verso partner, bambini, adolescenti, cuccioli; anticoncezionali obbligatori per almeno 12 mesi…E può anche capitare di essere fermati, perquisiti, interrogati e rilasciati con tante scuse dopo aver perso il volo, perchè la radioterapia manda in tilt i controlli di sicurezza degli aeroporti anche a settimane di distanza dalla cura!

È una storia dal fascino necrofilo: sleepers osseti nati in qualche princisbecco territoriale dell’impero- zarista-che-fu rubano identità di bambini morti e poi qualcuno gli frammenta il DNA. La lotta muove la ratio. La lotta e la fuga dai piani quinquennali siderurgici, dall’occultamento delle derrate, dalla tundra spelacchiata. La lotta e la fuga, e diventi una cellula della Terra di Mezzo che perde il comando cellulare del proprio soma.

domenica, dicembre 03, 2006

Mater et magistra

Per deformazione professionale lei scandisce le parole. Sillaba e cadenza le doppie e la H, relitto storico del verbo avere alitato con afflato: “HHHai preso l’aspirina?”, velare aspra e isolata dopo C, G: “Non mi hai Ki-esto il permesso”. Il suo eloquio è un dettato. E’ il suo ultimo anno di scuola e ha una prima, così la sua borsa è carica di foglie di vite, ricci di castagna, pallottoliere, alfabetiere…e scandisce a diversi decibel più del richiesto, nonostante la voce strozzata dalla cordite. Sembra bionica.

E’ una maestra: di quelle che
· Chi non capisce la sua scrittura è un asino di natura.
· Presto e bene non stanno insieme.
· Quella non è una calligrafia, sono zampe di gallina.
· Sei andato fuori tema (anche se il tema era libero).
· Non si possono sommare le mele con le pere.
( Perché? Il diverso non è sempre incommensurabile:almeno non quello ortofrutticolo, infatti posso comprare 3 mele e 2 pere e avere 5 frutti, tutti e 5 facenti funzione di spuntino pomeridiano).
· Vi metto zero spaccato sul compito, somari!
· Siete così somari che vi stanno crescendo le orecchie d’asino.
· Andate a capo, a nuovo rigo, a pagina nuova se avete finito la pagina. (La precisazione vuole evitare che qualcuno sovrascriva il rigo appena riempito o vada a capo sul banco).

Sulla cattedra ha degli spilli e un cuore di pezza. Chi la fa arrabbiare deve alzarsi dal banco e infilzare uno spillo nel cuore di pezza e lei precisa: “Ogni volta che mi fate arrabbiare è come se mi ficcaste uno spillo nel cuore! Vedete quanti spilli ci sono qui? Capite quanto mi fate soffrire?”
A giudicare dalla condotta della classe e dal suo essere afona, la crudeltà mentale della metafora non passa ai bambini del XXI secolo. Per fortuna


Lei scandisce. E mi inchioda per casa con l’acustica querula delle mie troppe vocali onomastiche. Forse dietro il suo pronunciare così chiaramente e distintamente si nasconde l’ignaro desiderio di preservarmi allo stadio evolutivo della lallazione. Io e mio fratello per lei siamo ancora “e criatur” (i bambini). Non è un lapsus: trattasi di definizione reiterata a telefono con la nonna in piena coscienza diurna, quantunque “Il trentesimo anno” sia per me Ingeborg-Bachmann-iamente vicino ad accadere, con il relativo carico da cento di sbandamento, minaccia, doveri morali, scoramento, ANSIA…

Da quando sono a Milano se n’è accorta anche lei. Che sono irrimediabilmente cresciuta.
E questo le causa una rabbia punitiva ficcante a telefono, che mi paralizza sul selciato del Sempione impedendomi di pedalare, come se si fosse inceppata la catena della bici, quando invece sono le mie gambe: disarticolate, non oleate, fuori binario. Lei mi vuole bene e parla per il mio bene, così mi ricorda che ho quasi 30 anni, non ho contributi, avrei dovuto prendere il diploma magistrale subito dopo la maturità scientifica perché il 1996 era l’ultimo anno utile per insegnare alle primarie senza laurea in scienze dell’educazione, avrei dovuto accettare la supplenza di 11 giorni nel Polesine che è sempre punteggio e ho perso il fidanzato nel 2002 (quello “legale” da paste-della-domenica per il rito prandiale dell’eterno fidanzamento, il professionista con la faccia pulita country-gentleman-colors in pantaloni ruggine a coste e con la borsa The Bridge carica di lavoro per il fine settimana che di solito era un alibi per il sesso con una collega-vecchia-amica-che-non-chiede-nulla-di-più…che poi io mica sono intransigente in funzione del sesso? Io mica sono ossessiva-compulsiva dopo la copula? Lo sono a prescindere, preventivamente, appena guardo qualcuno negli occhi! ).

Lei non ha riposto con cura il mio corredo in un armadio di tre metri per veder ingiallire la coperta di macramè. La signora che ha ricamato la mia iniziale sui “fazzoletti da letto” è morta prima di poter riempire il vuoto puntato con la lettera mancante. Michele Mirabella a Elisir ha detto che i miei ovuli stanno diminuendo, anche se ho ancora il broncio di una liceale e qualcuno mi chiede i documenti per accertarsi che non sono minore e il film non mi è vietato (ammetto che l’Eskimo rosso e la scriminatura Pippi Calzelunghe sono una sofisticazione anagrafica).

Mamma ti chiedo venia se nessuno si offre di riempire le mie ovaie dei suoi spermini e i moccichini del corredo con l’iniziale perduta. E poi lo sai che in fondo ci somigliamo, perché usiamo la frizione - speriamo solo quella - nello stesso modo, correggiamo la gittata della Panda in curva a 90 all’ora e siamo un po’ così anche fuori dell’abitacolo: bare volanti fintamente prudenti, assicurate solo da una cintura, che accelerano prima di frenare - trial and error - per poi inchiodare bruscamente, senza freccia.

Etichette:

venerdì, dicembre 01, 2006

Denti

La recessione gengivale è una sofferenza psichedelica. Coscienza fluttuante in cui tutto è esposto alla radice. Il dolore è tempo fiacco e cadenzato, modulazione di frequenza di una metafora infinita che batte sulla chiostra dentaria. Ti penti di non aver sorriso di più, pur non sapendo a chi. È un dato fisico elementare, meglio, un “male elementale”: nomen omen.
E io sono brava a slabbrare le piaghe, a mettere il dito dove duole e infettare. E’ un punto di partenza, un coccio qualunque della mia verità, sufficiente a costruirci intorno una trama, una bugia dispersa nel mondo chissà dove. Fino all’esaurimento delle forze. Nuovi grovigli, ma a piccoli sorsi.