domenica, dicembre 17, 2006

Lo specchio di Natale

Io a Natale mi manco molto. Mi perdo da qualche parte, tra le pieghe del divano e le fughe delle piastrelle da sgrassare col Vaporello dopo le fritture. Comincio a misurare quello che ho e quello che mi manca ed è penoso come l’ago che non trova la vena. Allora mi viene sonno e freddo, un ottundimento algido e rigonfio tipo anestesia dal dentista, e mi perdo. E per sentirmi mi mordo la lingua, che il sapore ferroso del sangue in bocca mi ricorda quanti globuli stanno lavorando per me. Il sangue è memento vitae: se non ho le mestruazioni desidero comunque vederlo scorrere da qualche parte. E poiché non sono una di quelle autolesioniste che si tagliuzzano le braccia, mi dò all’igiene accurata del cavo orale. A Natale soprattutto uso molto il filo interdentale, sia per rimuovere i pistilli dei fichi secchi, sia per veder scorrere il sangue dalle gengive andate da tempo a puttane. Valore ematico.
Penso che il dolore ottuso sia cominciato nel 1984: l’unico inverno che ricordi in cui la neve si è posata a terra dalle mie parti. Io non l’avevo mai vista: porosa e bianca, un bel po’ di centimetri sul prato sotto casa. Ci ho giocato dalle otto a mezzogiorno. Il naso e le falangi livide di assideramento, perché la volevo proprio toccare, senza guanti, e spalmarmela il faccia. Ma poi si è squagliata sotto il sole dell’ora di pranzo, che riscalda anche a dicembre dalle mie parti. Le finestre spifferavano ragù gorgogliante. Andai a fare la scarpetta nel sugo fresco e ripulendo il piatto con pane e moccolo provai il dolore ottuso, impastato di freddo e di sonno. Sarà che era il primo Natale senza nonno barbiere e che pure il presepe stava a lutto: mio padre si era scocciato di fare i vasi comunicanti e l’impianto idraulico, così sulla cartapesta non scorreva acqua vera col colorante blu, ma solo una striscia di carta stagnola, pure raggrinzita. E pure il laghetto con le paperelle era in domopack.
E’ così che ho cominciato a mordermi la lingua per dire a mamma che piangevo perché appunto mi ero morsa la lingua. Perché io sono una patetica discreta: mi piango addosso, ma raramente piango di fronte agli altri se non giustificata da una ferita, un’ecchimosi, un male visibile.
E ho cominciato ad abbracciarmi in un angolo dell’ingresso, dando le spalle allo specchio-omino.
Lo faccio ancora adesso. Ho mamma, papà, fratello minore e nonna, ma non siamo molto affettuosi tra di noi, salvo in caso di cancro. C’è anche un fidanzato, o una relazione che dir si voglia. Questo è il quarto anno che posso abbracciarlo a Natale. Certo, manca ancora una settimana, ma diamo per certo che accadrà. Lo abbraccerò senz’altro. Ma lui non mi manca quanto mi manco io in questi giorni. E poi c’è un’altra cosa. Io mi aggrappo fisicamente a lui, mi faccio scudo col suo corpo, lo bacio per respirarlo, perché vorrei essere nei suoi villi polmonari, però non sono molto usa alle smancerie. Non mi piacciono i preliminari, mi accoppio come i gatti, preferisco un morso in testa.
Il dolore ottuso poi mi irrigidisce. E inoltre diffido. Penso che se ci si abbraccia dal 20 dicembre al 7 gennaio si finga, si voglia ostentare felicità per il pubblico sotto le luminarie. Però mi manco e ho bisogno di due braccia che mi strappino ad dolore ottuso. Allora nell’ingresso a casa-casa, casa-dei miei c’è questo specchio di 180 centimetri a sagoma umana. Io mi metto nell’angolo di fronte allo specchio umano con le braccia conserte sul dorso, che tanto sono molto elastica e non ho grosse tette e allora le dita si congiungono sulle scapole. Dall’immagine riflessa sembra che mi abbracci qualcun'altro, tanto è innaturale la torsione delle braccia. E mentre mi rifletto mi manco un po’ di meno. Poi il formicolio mi intorpidisce, mi slaccio, esco dallo specchio e sono persa di nuovo.