domenica, febbraio 25, 2007

FEBBRAIO

Era il giorno delle ceneri, ma non è colpa di febbraio, anche se è spesso il mese che ammazza di brina le gemme e mette in ginocchio i coltivatori diretti, che poi tanto diretti non sono più perché sono mediati dalle quote latte e da altri dividendi comunitari. Febbraio è il mese di chi spesso non ha il compleanno.
E io non ho più capelli. Sono andata da INTRECCI, i parrucchieri ironici: nel nome evocano copiose chiome, ma poi sfoltiscono e alleggeriscono e decostruiscono e ti lasciano la calotta scontornata e tu ti porti dietro una nudità scomposta. Del resto la simmetria è un fatto anacronistico, come le trecce, lucide e malinconiche, che raccolgono polvere dalle spalliere.
Si può essere vintage nell’abbigliamento, ma rigorosamente sfrangiate e guai alle taglie botticelliane: saranno presto stanche di essere belle dentro.
Io almeno sono stanca, dei germogli di soia e del picco glicemico e delle cerniere che “speriamo si chiuda”. Del resto il modernariato pop eighties già imponeva alle dive kitch di tagliarsi una costola.
Ma il deformarsi non ha tempo. Pare che Canova, lavorando con il trapano sul torace, si sia schiacciato le costole fino a pregiudicare lo stomaco. Devo essere di meno per entrare meglio in qualunque canovaccio, mentre così sono necessariamente un impiastro forse non banale, ma intimamente indigesto, o comunque respingente. Le onde del destino domestico spingono a riva una serie di carcasse e gli affetti malsani non richiedono DICO, rassicuranti come una raccolta punti, come il montepremi di un quiz show. Io non DICO niente di un amore più eretico che erotico: sembrava un paradiso, invece è un purgatorio e chissà se qualche zia beghina intercede per me brontolando preghiere. Intanto che la nebbia a refoli si struscia tra le lenzuola stese, penso alla cenere dorata della sua testa sul mio incarnato olivastro, alle vene sempre più in rilievo delle mani che mi scoprono i segni del costume. DICO che l’amore per me è salsedine e rossore.

martedì, gennaio 30, 2007

SCRITTURE

Stavo imparando il linguaggio non verbale del fax (è parte del tirocinio) e censurando l’estroversione istintiva che devo sorvegliare per non servire al prossimo la mia autopsia, magari non gradita. Ci penso giusto con quei secondi di differita che non mi consentono un pudore preventivo…le pupille mi si dilatano, sento pulsare e incresparsi le tempie, e niente, non mi trattengo, non tengo a freno la lingua, a meno di non impegnarla nella suzione di liquirizia.
Eppure il pregiudizio del ridicolo è la mia chiave razionale. Sarà un’inconsapevole intuizione di difesa, che non riesco a praticare. E non voglio sembrare ridondanza, né artificio.
E’ tempo di syntax error, più che di scrittura. “Syntax error (missing operator) in query expression”.Non c’è nulla di poetico, cioè poietico, ma solo dismissione, fogne, cavi tagliati. Sputando gli occhi sugli scritti altrui, sento che non mi interessa…la ragnatela di testi, così vischiosa. Mi manca l’alito terragno, quello lapilloso e contadino, quello argilloso di Gianni che passava i colori della ceramica nel fuoco, e anche me.
Mi sono convinta che lo smog della circonvallazione abbia un odore di torrefazione: è la ribalta dell’adattamento. Così adatto anche la scrittura, la mia ampollosa al pay-off dell’advertiser che non c’è. Ho bisogno di un regalo, un rimando fisico esterno invece della polvere abrasiva della carta sui palmi. Qualcosa da covare, qualcosa che si schiuda e prenda vita, e faccia primavera. Un virgulto vero, però, non la mimosa dell’anno scorso seccata nel solito librone non letto (Deridda, quando tornerò alla filosofia?). Il rischio per i virgulti è la gelata. Anche per Frate Indovino l’inverno troppo tiepido può compromettere le gemme in marzo.
Qualcosa che spunti e che non sia speculativo. La lallazione di un bambino. Invece di vedere se funziona la prima persona o la terza, se tengono le metafore e se i tempi sono controllati…le sillabe ripetute e inarticolate. Così la lingua è ancora più pulita. MA-MA-TA-MA-PI-PI. E’ abbastanza pay-off per i pampers credo. E senza syntax error.

martedì, gennaio 16, 2007

Chi l’ha visto

Sciamani smarriti

Capita nella vita di non avere SKY, né il set top box per il digitale terrestre. Capita di non voler sapere cosa significhi feed, di non intendere più colmare digital divide e di non aver storie per le mani che valgano la pena, a furia di aver sfilato con le dita una trama dopo l’altra.
Capita di crepare a letto alle 9 di sera davanti ad un mini schermo lcd tenuto insieme con il nastro adesivo MAGIC e di riscoprirsi appassionata telespettatrice di CHI l’HA VISTO perché su Rai Uno danno il bignami della memorialistica garibaldina sceneggiato ad uso di ritardati nello sviluppo cognitivo o di alunni di terza elementare, con il pregio filologico del sussidiario però.
Escludendo la componente geriatrica che si smarrisce suo malgrado a causa di malattie neurologiche degenerative, sono attratta dagli scomparsi per libero arbitrio, o meglio dal disagio in fuga riscritto come un pezzo di nera, con ammiccamenti giallistici a Lucarelli..che già ci basta l’originale. Assumendo integratori alimentari “che agiscono dall’interno” per riacquistare tono, elasticità, capelli, capacità drenanti,mobilità intestinale e colorito sano, capisco che in verità sto cercando di ritrovarmi in un bicchier d’acqua e nessuno sa che mi sono persa perché sono ancora reperibile. In verità ho perso anche le linee di fuga.
Poi ci sono questi due, Denis ed Emiliano, che evidentemente stanchi delle metafore sbagliate come quella del conto Intesa leggero come il cioccolato light, dei tassi da provare chiedendo il mutuo, dei testi fuori gara a San Remo scritti dalla Montalcini e dalla Hack, da Sanguineti e dalla Merini…scappano nella foresta amazzonica dopo i seminari invernali di sciamanesimo.
Ma lo sciamano cosa fa? Lo stregone, il guaritore…in senso buono il cercatore di anime smarrite, ma poi ti può anche chiudere la porta in faccia se sei un inviato di CHI L’HA VISTO. Sarà una prova sciamanica o scostumatezza?
Gli sciamani mettono in relazione lo stato alterato di coscienza con il suono, ma si danno ai tamburi e non ai rave party. Gli allucinogeni per loro non sono stupefacenti ma piante sacre. La suggestione è una metafora persuasiva. Ho cercato molti varchi per andare in altri mondi e realtà stra-ordinarie: non erano legali e si rivelavano spesso lesivi della pressione polmonare e del battito cardiaco. Forse è il caso di cominciare a mangiare erbe e radici a caso, senza conoscerne gli eccipienti googlabili, sperando che si rivelino fenditure per altri mondi. Invece degli integratori alimentari, che non riparano la carenza di parti d’anima.

venerdì, dicembre 22, 2006

Insufflato

Trent’anni in un istituto di correzione sarebbero un regalo per molti. Spesso la colpa è solo della personalità parallela, ma il giudice, non essendo Salomone, commina la pena al titolare senza fare il dovuto distinguo tra l’uno e l’altro. Poi c’è chi paga il fio e la pena di qualche morbo degenerativo irreversibile. E vorrebbe una dissolvenza al nero nel tempo di battere le palpebre: un battito di ciglia per le parole, un battito di ciglia per spiegare le ali, veloce, come un tiro di balestra. Buio che schizza finalmente dal basso, fulmineo quando l’acqua non cola più da tempo in gola. Lo chiamavano garrote, ora ventilazione polmonare. C’è chi paragona il respiro al flusso di coscienza: allora c’è vita finchè resta un monologo interiore o in embrione

domenica, dicembre 17, 2006

Lo specchio di Natale

Io a Natale mi manco molto. Mi perdo da qualche parte, tra le pieghe del divano e le fughe delle piastrelle da sgrassare col Vaporello dopo le fritture. Comincio a misurare quello che ho e quello che mi manca ed è penoso come l’ago che non trova la vena. Allora mi viene sonno e freddo, un ottundimento algido e rigonfio tipo anestesia dal dentista, e mi perdo. E per sentirmi mi mordo la lingua, che il sapore ferroso del sangue in bocca mi ricorda quanti globuli stanno lavorando per me. Il sangue è memento vitae: se non ho le mestruazioni desidero comunque vederlo scorrere da qualche parte. E poiché non sono una di quelle autolesioniste che si tagliuzzano le braccia, mi dò all’igiene accurata del cavo orale. A Natale soprattutto uso molto il filo interdentale, sia per rimuovere i pistilli dei fichi secchi, sia per veder scorrere il sangue dalle gengive andate da tempo a puttane. Valore ematico.
Penso che il dolore ottuso sia cominciato nel 1984: l’unico inverno che ricordi in cui la neve si è posata a terra dalle mie parti. Io non l’avevo mai vista: porosa e bianca, un bel po’ di centimetri sul prato sotto casa. Ci ho giocato dalle otto a mezzogiorno. Il naso e le falangi livide di assideramento, perché la volevo proprio toccare, senza guanti, e spalmarmela il faccia. Ma poi si è squagliata sotto il sole dell’ora di pranzo, che riscalda anche a dicembre dalle mie parti. Le finestre spifferavano ragù gorgogliante. Andai a fare la scarpetta nel sugo fresco e ripulendo il piatto con pane e moccolo provai il dolore ottuso, impastato di freddo e di sonno. Sarà che era il primo Natale senza nonno barbiere e che pure il presepe stava a lutto: mio padre si era scocciato di fare i vasi comunicanti e l’impianto idraulico, così sulla cartapesta non scorreva acqua vera col colorante blu, ma solo una striscia di carta stagnola, pure raggrinzita. E pure il laghetto con le paperelle era in domopack.
E’ così che ho cominciato a mordermi la lingua per dire a mamma che piangevo perché appunto mi ero morsa la lingua. Perché io sono una patetica discreta: mi piango addosso, ma raramente piango di fronte agli altri se non giustificata da una ferita, un’ecchimosi, un male visibile.
E ho cominciato ad abbracciarmi in un angolo dell’ingresso, dando le spalle allo specchio-omino.
Lo faccio ancora adesso. Ho mamma, papà, fratello minore e nonna, ma non siamo molto affettuosi tra di noi, salvo in caso di cancro. C’è anche un fidanzato, o una relazione che dir si voglia. Questo è il quarto anno che posso abbracciarlo a Natale. Certo, manca ancora una settimana, ma diamo per certo che accadrà. Lo abbraccerò senz’altro. Ma lui non mi manca quanto mi manco io in questi giorni. E poi c’è un’altra cosa. Io mi aggrappo fisicamente a lui, mi faccio scudo col suo corpo, lo bacio per respirarlo, perché vorrei essere nei suoi villi polmonari, però non sono molto usa alle smancerie. Non mi piacciono i preliminari, mi accoppio come i gatti, preferisco un morso in testa.
Il dolore ottuso poi mi irrigidisce. E inoltre diffido. Penso che se ci si abbraccia dal 20 dicembre al 7 gennaio si finga, si voglia ostentare felicità per il pubblico sotto le luminarie. Però mi manco e ho bisogno di due braccia che mi strappino ad dolore ottuso. Allora nell’ingresso a casa-casa, casa-dei miei c’è questo specchio di 180 centimetri a sagoma umana. Io mi metto nell’angolo di fronte allo specchio umano con le braccia conserte sul dorso, che tanto sono molto elastica e non ho grosse tette e allora le dita si congiungono sulle scapole. Dall’immagine riflessa sembra che mi abbracci qualcun'altro, tanto è innaturale la torsione delle braccia. E mentre mi rifletto mi manco un po’ di meno. Poi il formicolio mi intorpidisce, mi slaccio, esco dallo specchio e sono persa di nuovo.

venerdì, dicembre 15, 2006


Ispirata dagli Strange Attractors

Le scienze ergono pattern per contrastare le turbolenze eppure il caos resta un regno inespugnato. Pare che Heisenberg se ne facesse ancora cruccio sul letto di morte. Deve essere un inciampo cognitivo imbarazzante per un fisico. Wittgenstein invece si sentiva comodo nel caos.
E’ un filosofo da prendere molto sul serio.
Il mood di chi trova confortevole la turbolenza è il meme necessario a chi vive sul codice binario del XXI secolo: è il replicatore evoluzionistico da metabolizzare per correggere un certo astigmatismo fideista e aderire al puro sperimentalismo delle nostre costruzioni antropocentriche così pigre e quindi così poco ragionevoli ET razionali ET prevedibili.
Il determinismo ha una velleità previsionale che si addice solo alle traiettorie balistiche.
Devo darmi un modello discreto della realtà, fare calcoli ricorsivi e non temere le interruzioni di senso: la continuità è una percezione da pasionaria che non si addice ad un’epoca in frantumi.
Ho capito che chi mi ha fatto a pezzi voleva solo rendermi un favore.
Mi devo riscrivere in un format staminale, neonato e totipotente: una coltura autologa di infinite forme. Oscillare, ma non con la temporalità nota di un metronomo. Ripetersi, ma mai allo stesso modo. La coda di paglia non è che la coda di una gaussiana molto spessa: prende velocemente fuoco a causa della volatilità delle opzioni. Io ho una coda di paglia a combustione lenta e insostenibile. Nella combustione lenta il calore si trasferisce dalla zona combusta a quella ancora da bruciare: c’è la veemenza del fuoco e la spossatezza del freddo. Preferirei la detonazione violentissima di una supernova.
La mia debolezza si spiega con la teoria del caos: dalla fede al bricolage, dal dogma alla piccola manutenzione con il seghetto da traforo. Mi hai detto “Facciamo un gioco” e io mi sono fidata: pensavo ad un piccolo mondo ordinato e normato.
La fiducia – ha detto qualcuno – è un “riduttore di complessità".
E io vorrei fidarmi, come mi fido di un terminale o del caos dei treni, che stanno su due rotaie, ma su un solo binario eppur si muovono…
E io vorrei fidarmi, con la mia vetusta rigidità da motore a scoppio che non si aggiorna ai frattali.
Invece i giochi sono sempre a somma zero e quindi caos e il tuo invito ludico non era che guerra di nervi, conflitto e collisione.
Mi hai messo in gabbia con il solito dilemma del prigioniero.
Il costo è il tempo perso nella rabbia dell’attesa.

mercoledì, dicembre 13, 2006

Binario Morto

Il Binario Morto è la lunga percorrenza della Freccia del Sud che al topico australe dove Cristo s’è fermato e anche oltre riporta la sua Feccia carica di sporte, spesso in files, trolley 4x4 e polistirolo per alimenti: il basto è post bellico e venti di guerre fredde spirano tuttora.
Vorrei un parere di Cavour sulle strade ferrate del XXI secolo millantate da Trenitalia come smart e ticketless. Io mi accontento anche di meno: vorrei solo che non fosse anacronistico.
Se dalle spalliere stinte di finta pelle mi sorride una damina nella stampa ingiallita, vorrei almeno poterla incontrare nel 1943 su una bonaria littorina sbuffante gasolio mal combusto.
”Se una notte d'inverno”…una viaggiatrice, anzi no una passeggera, chè tanto in vacanza si va solo a casa: geografie altre restano ignote, ma qualcosa del Belpaese si intuisce nel panorama ritagliato dal finestrino bloccato. Per fame d’aria e iperventilazione guardi la stazione di Arezzo di notte e ripensi alle regioni studiate a scuola, che disegnavi sul quadernone ricalcandole con la carta velina, tracciando i fiumi in azzurro e le pianure in verde. Floride economie basate sull’agricoltura e sulla pesca e, man mano che sali, sul settore terziario.
Il ritorno è viaggio, evasione, e per tornare si deve evadere dal corpo: Nirvana da cuccetta, formicolio nel midollo fino al mare iniettato nell’umor vitreo dal solito finestrino bloccato.
E’ l’analgesico degli arti rotti e il residuo fisso del pensiero meridiano: il mare.