domenica, novembre 12, 2006

Limes

(Capitolo I)

Limini, soglie, uscio di casa. I confini geopolitici dei Balcani e del Medio Oriente perché nel 1999 sono andata in Croazia e Vukovar era ancora un colabrodo e qualche cecchino faceva prove di tiro al bersaglio, ma non era nella scaletta dei nostri tg; perché con qualche cooperativa sarei partita presto per la Palestina; perché ho dato diverse domeniche ad Amnesty, perché nei sotterranei di Napoli ho partecipato alle riunioni dei Comunisti Internazionalisti Linea Rossa Combattente e un ragazzo basco caldo nero e amaro come caffè appena versato mi sfiorava il braccio e con la stessa cura, la stessa grazia, lucidava la canna incernierata sulla bascula. Sono una di quelle che sposa le cause – cause perse per alcuni – meglio se oltre confine (ma anche in un campo Rom) per sentirsi solo un corpo esposto alle mine, senza storia. Certo ho viaggiato poco, perché anche per sposare le cause di certi paesi ci vogliono due lire, oppure devi decidere subito di lavorare per una ONG e io non sono mai niente fino in fondo. Certo non mi sarei fatta pagare il viaggio dai terroristi internazionalisti. Certo il mio sguardo sul mondo non è un rigurgito chick-lit. Ma non scrivo saggi di scienze politiche, non sono un’inviata, da un anno neanche Amnesty. Solo che alle guerre penso spesso, a partire da me, dal mio corpo. Una volta, al corso di piccola perfetta massaia meridionale cui mia madre mi ha iniziato a sei anni, sono inciampata nel secchio lavando a terra. Scivolando ho mandato in frantumi la porta di cristallo dell’ingresso. Le palpebre scartavetrate da questa polvere di vetro che mi faceva da caleidoscopio sanguinolento, guardavo il mio corpo confitto e le pieghe rossastre dei tagli che sgorgavano. Sgomenta, più che per il male, per le facce dei paramedici che non sapevano da dove prendermi, come ripulirmi senza crocificcermi con le lastre. Ecco, la striscia di Gaza, il Kosovo, l’ Africa per me riattualizzano quel pomeriggio di cristalli: penso alle mie schegge ed elevo il dolore alla potenza delle bombe. Più che la coscienza progressista e di sinistra, all’empatia verso le cause mi muove il soma. Forse perché il mio corpo è stato spesso confitto e dentro la guerra. Ora il mio lavoro è la “chiacchiera inta-mondana”. Ma come? Devo pensare a quale “operazione nostalgia” induca i miei coetanei all’acquisto impulsivo. Una si studia Heidegger, sposa le cause perse internazionali e poi si fa ripetitore della chiacchiera cacofonica?
Ogni giorno una piccola, insonne, ipercinetica filosofa mancata, attraversa Milano in bicicletta e col badge firma questo consenso informato.